lunedì 20 gennaio 2014

Era mio padre


Era mio padre

Mio padre è morto già da quasi vent'anni – mi sembra ieri. 
Se n’è andato quando tutti avevamo ancora bisogno di lui. 
Ce l’ha portato via un cancro allo stomaco. Causa del decesso: Adenocarcinoma Gastrico. L’unica malattia che temeva davvero. Tutte le altre le avrebbe prese a calci nel culo. 
Quella no. Di quella aveva veramente paura. Si era convinto che anche sua madre - mia nonna - ne fosse morta. E anche lei prematuramente. 
Lui stava già cominciando a morire. Ma nessuno di noi s’è accorto ch’era gravemente ammalato. 
Neanche il dottore incapace al quale si era rivolto fiducioso - voleva curarlo col Ranidil?! - che per vedergli dentro lo stomaco gli ha cacciato dieci volte un tubo nero in gola. 
Solo lui presagiva la fine del viaggio. 
Ricordo - chi potrà mai dimenticarlo - l’ultimo sguardo rivolto dalla strada, verso casa, in alto, prima di salire in macchina, il giorno che partì per il S. Eugenio. 
Era avvilito, sapeva che non sarebbe più tornato. 
Era una luminosa mattina di giugno, ma una notte buia gli era già calata addosso. 
La sua fine improvvisa a tutti è sembrata una beffa. 
Proprio l’organo che permette agli uomini di sopravvivere, dentro di lui si è rifiutato di funzionare ancora. Come impazzito, l’ha ucciso. 
Quel male è ferocemente subdolo. Ti attacca da dentro, silenzioso e invisibile. Ti consuma inesorabile, mentre continui a fare tutto normalmente. 
Spesso non ti accorgi d’averlo se non quando è troppo tardi. 
Allora ho capito veramente come siano fragili gli uomini, anche quelli che sembrano forti. Come siamo fragili. 

Reclamando dall’uomo distratto che stava di guardia il permesso d’entrare da solo nella stanza fredda, ho voluto salutare mio padre per l’ultima volta. 
Siamo stati insieme per lunghi minuti, ma entrambi eravamo soli. 
Lui impietrito, avvolto in lenzuolo bianco; io senza parole, raccolto in una preghiera muta, il viso segnato dalle ultime lacrime che avevo da versare. 
Ma, come per un miracolo, il suo volto non era più sofferente. 
Papà sembrava guarito - restituito per sempre all’espressione serena di sempre. Quella che nelle eterne settimane precedenti avevo dimenticato. 
Ho avuto l’audacia di scoprire il suo corpo. Era nudo sotto il sudario. L’ho osservato per interminabili momenti. Ho letto, cucita nelle sue carni, una lunga inutile ferita - testimone della scienza impotente che s’arrende al mistero insopportabile della Vita e della Morte. 
E’ stata la prova più dura di tutta la mia vita. 
Sembra mostruoso, ma può essere lecito, scoprirsi a pregare perché una persona che ami non viva più, sofferente, ma si spenga al più presto. 

Oggi, quando mi capita d’entrare nella chiesa deserta percepisco ancora gli echi del necrologio commosso del suo collega più caro - interrotto dai frequenti singhiozzi degli altri. Uscendo, avverto lontano il crepitio sordo dell’ultimo applauso al passaggio della bara portata a spalla dai suoi amici più fedeli - mentre sulla piazza cala, come un velo pesante, immateriale e dolente, il fiacco rintocco della campana a martello dei morti. 

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