martedì 25 settembre 2012

"La più forte" di Strindberg; "Persona" di Bergman: Analogie tra due drammi borghesi.


Chi ama profondamente e, altrettanto profondamente, conosce il cinema di Ingmar Bergman ed, in modo particolare il suo film: Persona, non potrà non scorgere le forti somiglianze con un dramma di Strindberg, datato 1889: La più forte.
Si può, addirittura, dire, e molti critici lo hanno fatto
apertis verbis, che il Bergman di Persona incontra lo Strindberg de La più forte, al punto da rilevare facilmente come il film di Bergman (successivo) abbia molti punti in comune con il dramma borghese di Strindberg (precedente). 
E si può anche aggiungere che il problema della incomunicabilità e del silenzio di Strindberg incrocino la loro strada con le corrispettive problematiche elaborate nel cinema di Bergman.
Quando Ingmar Bergman spiegò il soggetto di Persona, lo riassunse in questi termini:
E' un film su una persona che parla e su una che non parla, e si confrontano le mani e si mescolano l'una con l'altra”.
Kenne Fant, che era allora Presidente dello
Svenska Filminstitutet, con una notevole dose di comicità involontaria, replicò:
"...non dovrebbe essere un film molto costoso!".
 Il film, in buona sostanza, è la ricerca delle caratteristiche che legano una coppia di donne (protagoniste anche della piece strindberghiana), di cui una è silenziosa e la seconda è alla continua ricerca della verità nell'altra. 
Persona è una pellicola, molto sottile e complessa, oltre che su quelli già accennati, anche sul tema dell'identità di genere e sui ruoli che sono assegnati alla donna dalla società.
Non è una coincidenza che una delle due donne sia un attrice, colta in un eterno attimo di smarrimento proprio mentre interpreta il ruolo di
Elettra.
Sin dalla sua uscita, il film fu recepito come altamente sperimentale nelle tecniche cinematografiche che Bergman utilizzò per trasmettere il senso di incomunicabilità tipico della sua cinematografia.
E anche
La più forte è basata sullo stesso principio: una donna parla e una ascolta, o meglio, risponde con espressioni non verbali.
La domanda retorica su quale delle due donne di
Persona sia la .....più forte è in realtà destinata a restare senza risposta.
Ma si sa bene che Bergman si interroga, si pone delle domande, ma non a tutte le domande da delle risposte; non a tutte risponde. 

Non per tutti i quesiti ha o, meglio, da una risposta. 
Non a tutti i problemi offre una soluzione.
C'è però qualcosa di più profondo, un sotto-testo impalpabile e inafferrabile, una sorta di enciclopedia di poche parole sul significato di genere dell'essere donna. 

Quella che la donna silenziosa e la donna preda di una specie di impeto moralizzatore sembrano suggerire sono gli estremi di un pendolo. 
Da una parte la rinuncia di sé in favore di un ruolo che può dare una facile felicità domestica; dall'altra il vuoto della ribellione alla maschera, che può dare la libertà del volo ma anche il precipizio di una caduta rovinosa.
Due estremi che però sono intercambiabili, che sembrano opposti solo perché speculari.
Il critico Tullio Kezich, ha sottolineato, a suo tempo, che: 
"Persona, è svolto come un teorema che a un certo punto si trasforma nell'operazione senza anestesia che il chirurgo svolge in presenza del pubblico".
Sempre secondo Kezich: 

"Bergman riduce all'osso le scenografie e gli artifici per indirizzare lo spettatore verso i personaggi, come un diabolico dominatore". 
Proprio in questo aspetto trova adempimento l'intenzione sperimentalistica della pellicola, oscillando tra la nevrosi attiva e passiva dell'afasia e le soluzioni registiche brutalmente subliminali e psicoanalitiche.
Il film è grande cinema, capolavoro cinematografico, ma pur sempre cinema.
E' lo stesso Bergman a suggerirci di vederlo come tale, come finzione, non come realtà, non come riproduzione della vita, proprio all'inizio del film, e ce lo ricorda a metà della visione e, ancora, alla fine della proiezione, quando la pellicola sembra prendere fuoco e autodistruggersi. 

Lo fa proponendo una serie di immagini che rappresentano proprio il cinematografo: i carboni dell'arco voltaico di un proiettore; la pellicola che scorre; una sequenza del cinema muto; le mani di un bambino; il sacrificio di un agnello; la mano di Cristo inchiodata alla croce; la neve sporca; un bambino che cerca di aggrapparsi invano a un'immagine di donna irraggiungibile. 
E ci avverte anche di leggere il film in diversi modi, fornendoci, per l'uso, diverse chiavi di lettura (tecnica-estetica; religiosa-spiritualistica; psicologica-psicanalitica) delle quali, però, l'una non esclude l'altra. 
Ma, tutte insieme, fondendosi l'una nell'altra, in maniera propedeutica, in una sola complessa ed articolata lettura critica, si completano e si perfezionano.

Liliana Cavani disse, all'epoca della prima uscita del film: 
"Ho visto poche opere cinematografiche così nette. Il film è il risultato di un paziente lavoro di approfondimento e di rifinitura. E' uno di quei film che indicano ai registi vie nuove per tentare nuove possibilità di espressione".
Il prologo, poi, allinea diversi espliciti riferimenti ad opere precedenti di Bergman. 
Ne ricordiamo almeno due, i più marchiani: Prigione, con la comica alla Melies; Il silenzio: con lo stesso bambino, che è uno dei tre protagonisti del film, interpretato da Jorgen Lindstrom; e lo stesso libro di Lermontov: Un eroe dei nostri tempi.


(dal saggio di Salvatore M.Ruggiero: "Il genio di Uppsala, il grande cinema di Ingmar Ernst Bergman spiegato a chi lo ignora" http://www.amazon.it/Grande-Cinema-Ingmar-Bergman-Spiegato/dp/1470921553/ref=sr_1_10?s=books&ie=UTF8&qid=1346615252&sr=1-10)

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