lunedì 16 luglio 2012

Le stagioni della lattaia. Il racconto breve della donna che mesceva il latte con altre sette piccole storie. di Salvatore M.Ruggiero



Presentazione dell'autore

 Vivo in un paese brutto. Brutto, perché maltenuto; brutto, perché cresciuto disordinatamente - senza armonia; brutto, perché disseminato di case senza facciata; brutto, perché zeppo di stabili fatiscenti coi muri crepati.
E’ un vero peccato! Perché di sicuro non è stato sempre così. Un difetto di senso estetico, poco meno che generale, l’ha reso brutto; il disinteresse, l’egoismo e la sciatteria, di chi lo ha amministrato per anni e della sua gente, hanno fatto il resto.
Io penso che alla sua nascita - mille anni fa - fosse molto diverso da com’è adesso. Anzi, sicuramente era diverso. Sicuramente era migliore. E, a suo modo, doveva pure essere bello. Posso immaginare com’era - senza sforzo. Se chiudo gli occhi le vedo ancora le sue case basse: paiono reggersi lungo il pendio scosceso, puntellate nella terra e nei sassi. Sembrano gatti che si reggono sul sofà con gli artigli ficcati nello schienale. Sono addossate, appiccicate una sull’altra, a modellare i minuscoli, caratteristici borghi, stipati di portici archi e loggiati, che conservano ancora il nome degli edificatori primordiali. Tutte di pietra viva e malta impastata a colpi di badile; tutte coi serramenti di quercia laccati al naturale. Li vedo ancora i suoi tetti coperti di coppi fatti a mano: tutti uguali nella forma, tutti diversi nei colori, estratti a caso dall’impasto di terracotta. Le vedo ancora le sue macere di pietra a segnare i confini delle proprietà - fuori del centro abitato e anche dentro. Appena spaccate, le pietre sono di un bianco abbagliante, quasi lunare; poi, col tempo, diventano grigie - per accompagnarsi meglio alla tristezza del paesaggio circostante.
D’accordo, quel paese era povero. Ma non lo nascondeva. Era essenziale e dimesso. Ma almeno aveva un bel colpo d’occhio omogeneo. Costituiva uno scenario prezioso, da preservare per la sua tipicità. E’ un vero peccato che sia stato rovinato, devastato dopo. E’ successo tutto negli ultimi cinquant'anni. E ci fosse stata almeno una buona ragione per mandarlo in malora; ci fosse stato almeno qualcosa da predare, qualcosa di cui arricchirsi dallo scempio. Sarebbe stato uno dei tanti sacchi scellerati, come ce ne sono stati molti nel secolo appena trascorso. Come, purtroppo, ce ne saranno tanti altri, in questo nuovo secolo.
Tutti causati dall’ignoranza, dalla negligenza, dall’incuria, dalla ottusità degli uomini.    
Prima che partisse la corsa allo sfruttamento industriale della pietra calcarea locale, l’unica vera risorsa era la terra: da coltivare, fertile e generosa; o sassosa e avara.
Allora i terreni da coltivare si spietravano a mano, sasso dopo sasso. E si coltivavano per sopravvivere. Allora le uniche prosperità erano gli animali e i figli. Poi è arrivata qualche lira ed ha guastato tutto. Ha rotto equilibri antichi, tenuti in piedi per secoli solo dalla miseria e dalla fame. Ora, che una quantità insensata di cemento è stata versata a sproposito, brutalmente - come una bestemmia urlata in faccia ad un povero cristo - su tutto il paese, anche nel cuore del vecchio centro storico, prendendo il posto delle stradine e delle piazzette lastricate a pietra e dei muri a secco centenari, le case - se va bene - hanno gli esterni di quarzo plastico e gl’infissi d’alluminio anodizzato - perfino alcune di quelle costruite non proprio di recente.
E i tetti? Alcuni saranno pure nuovi e fatti a regola d’arte, ma sono tutti coperti con tegole correnti - e poi sono tutti diseguali.
Ora, che il danno è stato fatto - ed è irrimediabile - non basta rivestire la piazza centrale con lastroni di marmo bocciardato a macchina, per il capriccio di farne il salotto buono. E’ un’idea velleitaria. Passerà alla storia come l’estremo ma vano tentativo di salvarne l’aspetto arcaico; di conservarne l’essenza originaria, impiantando sul nuovo un elemento fintamente antico.
Così il tremendo destino del mio paese è di rimanere per sempre un posto brutto, triste e trascurato - come, purtroppo, ce ne sono tanti altri - dove si nasce per caso, si vive senza speciali entusiasmi - quasi per inerzia - e non succede mai niente di memorabile. Se uno non riuscisse ad apprezzarne la relativa tranquillità, oltre ad avvertire il fastidioso sospetto che l’esistenza gli sia sfuggita troppo veloce fra le mani - più o meno utilmente - potrebbe anche subire, abitandoci da sempre, l’incresciosa sensazione di averci sprecato malamente una vita. Al più - ma solo per via della quiete e dell’aria buona - qualcuno venuto (o tornato) da fuori potrebbe farne il suo… buen retiro. Ma intanto una vita vera se l’è cercata altrove!
A completare degnamente il tutto - per un supplemento che, onestamente, non era necessario - il mio paese possiede una storia assai modesta. Di cui si può facilmente predire che non diventerà mai motivo di vanto. (...Questo paese, dall’aspetto selvaggio ed ameno …non ha una sua storia di particolare rilievo... da La storia di Coreno di Don Giuseppe La Valle). Ma forse, si addice così ad un posto che d’importante ha vissuto solo la Guerra. Quanto altrimenti vi è accaduto pare non interessare nemmeno i suoi pochi abitanti. Per quest’unico motivo, conserva cultori raffinati - e rari e preziosi. Le storie dei piccoli paesi sono fatalmente accomunate da uno strano destino: finendo tutte per somigliarsi, vengono frettolosamente omologate. Ma, anche se sembrano simili, ciascuna di esse ha qualcosa di peculiare che la rende speciale. Se si riuscisse a coglierne la consistenza più intima, a tratteggiarle con l’opportuna sensibilità, non tutte le storie dei piccoli paesi sarebbero archiviate come  … storie piccole.
Da qualche parte nel mondo si conserva l’uso di ricordare ed onorare il compleanno dei morti. Al mio paese sembra che non esista più la Memoria! Quando un uomo muore finisce nel dimenticatoio. Lì la sua memoria rischia di evaporare per sempre. Per quanto alcuni viventi - consapevoli, o meno, d'avere poco o niente da dire - per la loro banalità hanno i modi di chi è già morto (mi ricordano l’anziano dottore visto in un vecchio film svedese# degli anni ’50). Al contrario, certi defunti, anche dopo il trapasso, con le loro ricche storie personali, ancora ci raccontano molto. E’ come dire: Tutti muoiono, pochi hanno realmente vissuto! Alcune persone hanno lasciato una traccia - leggera o profonda - nella sabbia della Memoria e del Tempo. Spesso ci accorgiamo dell’influenza che hanno esercitata su di noi quando è ormai troppo tardi. In tal caso solo coi pensieri possono ricevere la nostra gratitudine. E’ sempre da preferire la riconoscenza - anche tardiva - alla dimenticanza colpevole.
Come si può descrivere meglio una terra se non raccontando le storie dei personaggi che vi sono nati, che vi hanno vissuto, che l’hanno animata con la loro presenza? E, quante esistenze di persone comuni, osservate con maggiore attenzione, non si rivelano così normali - quasi scontate - ma, sotto la scorza della loro apparente semplicità, finiscono per rivelare particolari extra-ordinari? Oggi verrebbe da dire che quelle persone che sembravano nani erano giganti. E ancora, chi non reca dentro di se l’eco delle sue frequentazioni? Ognuno di noi si porta dietro certi luoghi della memoria - posti o persone che ha frequentato. Qualcuno ricorda, qualcuno dimentica o, addirittura, cerca di rimuovere. Senza riuscirci, i pensieri - l’unica cosa veramente libera di questo mondo - non si fanno comandare. Nemmeno dai proprietari legittimi.
Così, chiunque conserverà sempre le proprie radici, continuando - ancorché involontariamente - a nutrirle. Esse sono più profonde di quanto crediamo, e non vanno mai perdute! Se qualcuno tentasse di disfarsene - come si fa coi vecchi giocattoli rotti - deve convincersi che tale proposito non avrà un agevole successo. Il filo della memoria, intrecciato coi ricordi, è sottile ma robusto: riuscendo sempre a non farsi recidere, ci tiene legati al luogo d’origine.
Deriva da queste poche, elementari riflessioni - che da alcuni saranno considerate trascurabili - l’impulso che mi sono auto-trasmesso, abusivamente, a scrivere “Le stagioni della lattaia con altre sette piccole storie”. Ebbene, si! Piccole Storie. Possono sembrare piccole, ma sono importanti, soprattutto per me, ma non solo per me. E come avrei potuto raccontare vite intere di personaggi realmente esistiti? Ho tentato, quindi, di ricostruirne solo pochi episodi; alcune scene che amo definire piani-sequenza tracciati in punta di... tasto. Si riferiscono all’esistenza di certe persone che ho conosciuto, e che vorrei sottrarre alla damnatio memoriae.
Esse potrebbero anche costituire una specie di memento mori. Proprio a quelle persone è rivolto questo modesto tributo, convinto, come sono, della esemplarità delle vite che hanno vissuto. Le loro flebili voci ancora risuonano - per chi sa ascoltarle - tra le pietre immutate dell’antico borgo, dove si inala dall’aria l’odore del tempo; e, riferendo qualcosa d’interessante, hanno impartito lezioni di vita tuttora preziose. Chi più chi meno, tutti ci hanno insegnato qualcosa: chi più chi meno tutti abbiamo imparato qualcosa da loro. Ora non possiamo - non dobbiamo! - permettere che i loro segni precari si dissolvano in un oblio ingiusto. Abbiamo tutti il compito di custodirli come fossero retaggi di valore.
Alla maniera di Arcadio Buendìa# ho marcato i nomi di sette otto (s)oggetti, per non dimenticarne la …funzione. Di sicuro erano più di sette otto i (s)oggetti che hanno meritato di essere contrassegnati. Per ora dovrete accontentarvi di questi.
Per ultimare quest’impegno - assunto soltanto con me stesso e col mio daimon (il vizio impunito della scrittura) - non mi sono sfinito in alcuna ricerca, ho solo adoperato brandelli di vite, i cui titolari sono individui realmente esistiti, persone comuni - ma, a loro modo, speciali - campioni di una umanità schietta; protagonisti di esistenze sobrie, silenziose, quasi invisibili, sempre garbate. Sono morti tutti. Tutti hanno terminato la loro personale battaglia terrena. Per questo motivo ho voluto ricordare l’anno di nascita e di morte di ciascuno. Mi è sembrato che la coltre di polvere che ricopre tutte le cose vecchie avesse coperto anche loro e che  andasse rimossa. Allora ho voluto asportarla. E grattando nella crosta di quelle vite ho prelevato questi pochi frammenti (Rosam carpe, spinam cave!). Soprattutto mi sono sforzato di conservarne la sostanza più autentica. Per lo più si tratta di reminiscenze nitide, o appena impallidite dal molto tempo passato; sospese tra memoria ed imago, realtà (quasi tutta) e fantasia (qualche lampo). Le ho ritenute adatte ad offrire scampoli di quelle esistenze - ripeto, solo in apparenza ordinarie - consumati nei tanti brevi attimi che cuciti insieme fanno una vita intera. Qualche volta - devo ammetterlo - mi sono arreso alla tentazione d’inserire qualche piccolo dettaglio sprigionatosi dalla mia immaginazione - senza, per questo, tradirne la verosimiglianza.
Coltivando il progetto ambizioso di tracciare un mio personale amarcord sono andato a scavare nei ricordi di un bambino qualunque. Ho tentato di riportare alla luce quelli che amo definire ordinari luoghi comuni. Territori geografici o metafisici; realmente esplorati o frutto della mia immaginazione; popolati da campioni umani o da creature leggendarie; costruiti con immagini e voci; provvisti di forma e dimensioni; arricchiti da emozioni personali o da sensazioni collettive; consumati in brevi attimi o nei lunghi momenti di una vita. Parte cospicua del risultato è contenuta in questo…time travel. L’ho tessuto con premura - e con pazienza che neppure sospettavo di possedere - sul malfermo arcolaio della mia perizia, utilizzando come ordito i miei ricordi, come trama le mie parole. Non sono una …bestia da prosa - forse, non lo diventerò mai - quindi ho dovuto sforzarmi di non scrivere insulsaggini - in ogni caso non troppe - cercando, al contempo - senza risultare troppo aforismatico, né sapienziale o pretenzioso - di attenermi, quanto più fosse possibile alle sole persone e al loro operato, anche se in qualche caso ovvio sono stato sentimentalmente coinvolto.
Questo è il meglio di cui sono stato capace. Voglio offrirlo a quanti hanno condiviso quei ricordi con me, ma non hanno colto la straordinaria normalità di quelle persone (o, se preferiscono, la loro normale straordinarietà); donarlo a chi non ha vissuto quei tempi, perdendo il momento propizio per apprezzarne la evidente diversità. All’unica condizione che entrambe le categorie sappiano cogliere ora la tensione drammatica ora la levità ironica che mi sono sforzato di contenervi.
Chi avrà la ventura - o la sventura di leggerlo, dipende dai punti di vista - vi potrà ritrovare, o sperimentare, le mie stesse sensazioni, attraverso la suggestione che solo le testimonianze dirette riescono a generare. Ho reclamato a me stesso di scribacchiare questo volumetto, e l’ho fatto: con qualche fatica (Hoc opus, hic labor est!), ma ricavandone puro piacere. E cercando anche di metterci dentro, qua e là, una certa idea di poesia che mi porto in testa da sempre.
Per questa e per mille altre ragioni mi auguro che le quasi 100 pagine che seguono - fittissime, perché contengono più di 40.000 parole, ordinate in 900 paragrafi, a loro volta distribuiti lungo 4.000 righe - non siano considerate un impegno superfluo o, peggio, tempo speso male. E, nemmeno, che appaiano rimembranze banali, prive di originalità. Auspico, invece, che possano far assaporare ad altri sensazioni simili a quelle che io ho provato scrivendole - altrettanto intense. E spero, pure, che possano trarne lo stesso mio gusto i pochi - o i tanti - che le leggeranno. Per questa ragione preminente ho deciso, alla fine, di parteciparle. Le mie evocazioni non aspirano certo ad ottenere la considerazione che meritano solo i più alti esercizi di stile; né a fornire una nostalgica apologia dei tempi passati. Esse provengono direttamente da un mondo anteriore - schietto ed espressivo. Se questo mondo sia peggiore o migliore del nostro, in tutta onestà, io non posso saperlo. Sebbene abbia tentato di fornire un abbozzo di risposta che possa aiutare a comprenderlo - o, quantomeno, a farlo intuire. Solo per iniziare, posso dire che quel mondo era anche nostro. Ci apparteneva e nemmeno lo sapevamo. La nostra incuria ne ha provocato la definitiva scomparsa. Ora, che non c’è più - o meglio, che non lo abbiamo più; che non possiamo più disporne - dobbiamo limitarci a ricordarlo con un pizzico di commozione. O - se preferite - addirittura a rimpiangerlo. E, utilizzando quegli stessi struggenti ricordi, cercare il giusto, e più che meritato, riscatto delle dignitose persone che l’hanno popolato e animato. Perché, ora, più che mai, solo quelle persone possono degnamente rappresentare quel mondo.
Da quei giorni felici, che oggi mi appaiono come in un sogno - bello ma ormai sbiadito - sono passati più di quarant’anni. Per quanto possano sembrare lontani, quei giorni, quel mondo, quelle persone, insinuano il dubbio che non siano mai esistiti davvero. In questo libro non si tratterà di come magnificare quei giorni, quel mondo, quelle persone; ma si tenterà, piuttosto, d’impedire la definitiva estinzione del loro - fin troppo effimero - ricordo.                                                                                                                     

l'autore


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