venerdì 1 giugno 2012

APPUNTI SPARSI DOPO LA VISIONE DEL FILM: LUCI D'INVERNO.


"Dà soddisfazione rivedere “Luci d'Inverno” dopo un quarto di secolo.
Constato che nulla si è corrotto o si è rotto”.
(Così lo stesso Ingmar Bergman a proposito del suo film, nel suo libro-diario “Immagini”).

L'idea di base di “Luci d'inverno” venne a Bergman dopo aver visto il film di Bresson: 
Diario di un curatodi campagna”.
Ma l'idea primigenia il Maestro la ebbe diversi anni prima, quando immaginò che un uomo entrasse d'inverno, in una chiesa isolata e deserta, si sedesse nei pressi dell'altare e rivolto al Cristo dicesse:"
"Resterò qua fino a quando non mi parlerai”.

Il film fu interamente realizzato a Falun, cittadina della Svezia centrale, dove fu organizzata anche la prima mondiale, dopo la quale si devolse il ricavato in favore dei lavori di restauro della stessa chiesa.
"Luci d'inverno” dispone di quattro personaggi centrali: il prete, la maestra, il pescatore, sua moglie.
Il pescatore ha appreso dai giornali che i cinesi hanno una bomba atomica e che si sia accumulata una quantità spregevole di odio tra loro e il resto del mondo.
L'uomo non può liberarsi di questo pensiero assillante.
Si è come pietrificato nel guscio chiuso della sua paura.
Sua moglie lo convince ad andare a vedere il prete, dopo la celebrazione della messa, e a chiedergli aiuto e consiglio.
Il sacerdote è anch'egli un uomo molto turbato ed infelice.
Piange la moglie morta ed è incapace di provare tenerezza per la sua amica maestra, che lo adora, lo vorrebbe, e lo segue come un'ombra.
La causa sta anche nell'eczema nevrotico della donna che gli ispira un vero senso di repulsione fisica.
Il pastore, poi, è inadeguato a dare consolazione al pescatore, anzi cade anch'egli in una profonda crisi, un grande isolamento dagli altri, dal mondo, da se stesso: nel più completo e perfetto "silenzio di Dio". 
Nella più completa “assenza di Dio”.
La gente intorno a lui, soprattutto la maestra, lo spinge ancora di più in profondità nella crisi.
Il pescatore si suicida.
E' quindi dovere del sacerdote dirlo alla moglie, prima di andare via per fornire il servizio di rito nella chiesa della parrocchia adiacente.
La maestra lo accompagna e, con sua grande sorpresa, trova la chiesa vuota.
Nonostante questo il prete vuole ugualmente celebrare il rito religioso.
Quando il crepuscolo invernale cade, va verso l'altare di fronte a una “congregazione composta da una sola persona: la sua amica e spasimante maestra.
Può darsi che quest'ultimo solitario servizio religioso gli restituirà la sua fede perduta e abbastanza fiducia e forza per mostrare tenerezza nei confronti dei suoi simili, ma soprattutto nei confronti di se stesso e della sua anima.
Morta la moglie (“...morta insieme alla dolce menzogna e Dio Padre impallidisce”.
(da Immagini, libro-diario del Maestro), Thomas Ericsson, il pastore protestante (interpretato da Gunnar Bjornstrand) di uno sperduto e glaciale villaggio della Dalecalia, all'estremo Nord della Svezia,“si dissangua sentimentalmente”.
Ha completamente perso la fede in Dio.
Respinge le profferte d'amore di una donna atea, la maestra Marta Lundberg (interpretata da una più che credibile Ingrid Thulin); e non sa consolare un parrocchiano nevrotico che si ucciderà (Max von Sidow in un ruolo non di protagonista).
Tutte le volte che ho messo Dio a confronto con la realtà, l'ho visto diventare feroce, distante e crudele: un mostro, quasi”.
Né, tantomeno, sa consolare la sua vedova.
"Se riuscissimo ad essere sicuri... Se riuscissimo a credere in una verità... Se riuscissimo a credere..."

Un altro rigoroso, impietoso, chirurgico dramma da “camera” del Maestro.
Costretto in una scenografia scheletrica, essenziale, che spazia (si fa per dire) tra una chiesa fredda e desolata e le poche case di un villaggio dimenticato da Dio e dagli uomini.
Quasi totalmente privo di quei momenti che il Maestro definisce ...in fortissimo, tranne uno: la scena del passaggio a livello...
...“quando Thomas e Marta sono bloccati al passaggio a livello e lui le rivela che è stato suo padre a volere che lui si facesse prete. Allora giunge il treno-merci con quei vagoni simili ad enormi bare. E' l'unico momento di forte impatto visivo e violento effetto acustico. Per il resto il film è realizzato con grande semplicità. Tuttavia dietro la sua semplicità c'è una complessità non del tutto facile da cogliere”.
(da Immagini, libro-diario del Maestro).

Complessità, naturalmente, derivata dai temi trattati: tutti quelli più cari al regista svedese:
la ricerca dell'unità trascendente;
la perdita della fede religiosa e della speranza; 
le difficoltà nei rapporti interpersonali;
le problamatiche legate ai rapporti sentimentali e di coppia;
l'assenza o il silenzio di Dio;
la difficoltosa ricerca nelle persone di un delicato equilibrio psicologico;
et alia.

Dopo un buonissimo "Come in uno specchio", Ingmar Bergman gira il secondo capitolo della cd. “Trilogia Religiosa” (dedicata al tema ontologico-religioso del silenzio o dell'assenza di Dio) suscitando buone impressioni nella critica, che lo ritenne, quasi unanimemente, il migliore dei tre.
La certezza della esistenza di Dio, evidenziata, per analogia, dalla presenza dell'amore, che, da Bergman, sembrava essere stata acquisita definitivamente, nel finale di “Come in uno specchio” (che - ricordo - si chiude con la famosa e piena di speranza, frase di Anders, il figlio problematico: “Papà ha parlato con me”), ora è (ri)messa in dubbio dal protagonista del film (il Pastore Thomas, interpretato dallo stratosferico Gunnar Bjornstrand) che, dopo la perdita della moglie, ha perso completamente la fede, è attanagliato dai dubbi, non riesce più a trovare un significato alla propria esistenza.
Bello e intenso tutto, ma la parte migliore del film, quella più riuscita, più densa di significato, è sicuramente il finale.
Il Maestro lascia in sospeso lo spettatore nell'ambigua e difficile scelta: il pastore (ri)troverà Dio, accettando il suo silenzio come naturale, ed insieme eloquente, testimonianza della sua esistenza o continuerà a macerarsi nel suo dolore e nella sua perdita di fede, conducendo una esistenza ormai priva di ogni senso e di ogni significato?
Il pastore Thomas: "Se veramente Dio non esistesse, nulla avrebbe più importanza. La vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo; la morte solo una frattura, la fine del corpo e dell'anima; la crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del giorno: le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate”.

Grandissimo film. Capolavoro assoluto. Nel quale, semplicemente e quasi miracolosamente, (ma gli artefici del miracolo sono solo loro due: Ingmar Bergman e Sven Nyquist, il direttore della fotografia), non ci sono immagini prese alla luce del sole.
Così come il sole non riesce a a rompere il fitto strato di nuvole plumbee presenti nel livido cielo svedese, la presenza di Dio e la sua parola non riescono a scalfire né a penetrare l'animo del pastore Tomas, induritosi dopo la drammatica morte della moglie e la conseguente, completa perdita della fede.
Ingmar Bergman, come si è detto ripetutamente in altre sedi, pone delle domande, a se stesso e allo spettatore, ma non da risposte, né le suggerisce.
Molto spesso, e questo è uno di quei casi, lascia che sia lo spettatore a concludere il film con la propria opinione, convinzione, persuasione personale.
Quindi non si sa se, effettivamente, il pastore ritroverà la fede in Dio.
Sembra che alla fine del manoscritto del film abbia vergato di suo pugno le parole “Soli Deo Gloria”, che fanno chiaramente intendere che Tomas ritrova la fede.
Tesi del resto avallata da Vilgot Sjoman, autorevole e attendibile portavoce del cineasta. Tale prima sensazione viene smentita subito dopo da una intervista dello stesso regista, il quale sostenne al giornalista della rivista Chaplin, come “Luci d'inverno” avesse costituito “l'annientamento completo” del problema religioso nella sua vita e nella sua opera.
In realtà il vero problema non è per il Maestro stabilire se la fede persa o mai trovata possa essere riconquistata, ma tracciare il percorso umano attraverso il quale essa viene persa, e/o possa essere ritrovata.
L'obiettivo di Bergman è di tracciare nel miglior modo cinematografico possibile i dubbi esistenziali delle persone, le crisi della loro coscienza, la tentazione intrattenibile di rifiutare la trascendenza, perchè non compresa o incomprensibile.
Bergman non ambisce a raccontare la conquista della fede; ma solo a raccontare il difficile, impervio, incerto cammino che ogni uomo percorre cercando la fede.
Insomma, il film è l'ennesima stimolazione bergmaniana alla speculazione filosofica sul significato dell'esistenza. Che, peraltro, continua a sfuggire.
La critica ne fece e na fa ancora una trilogia, insieme a “Come in uno specchio” (1960) e “Il silenzio”(1962).
Sicuramente è il migliore dei tre.
Ma, nel libro di Vilgot Sjoman “Diario con Ingmar Bergman” c'è un ragionamento che lascia trasparire un nesso tra “La fontana della vergine” (“L'orrenda storia della ragazza stuprata e assassinata, dei violentatori e della vendetta”) e “Come in uno specchio”. Vi si dice che ho progettato “Luci d'inverno” come passo finale di una trilogia che comprende i primi due film e quest'ultimo, il terzo”. (da Immagini,libro-diario di Bergman)
Sebbene anche gli altri due abbiano fornito molto materiale per dibattito tra cinefili nei mille cineforumdegli anni settanta.
Il titolo originale in svedese (“Nattvardsgästerna) significa “I comunicandi”.

Due curiosità.
  1. Il finale del film derivò da un fatto singolare realmente accaduto. In compagnia del padre settantacinquenne e claudicante, Bergman si trovò a visitare per tutta la Svezia, una grande quantità di chiese di campagna, isolate e deserte. Finchè non si trovò in una di esse posta a nord di Uppsala. In quella il padre si vestì degli abiti rituali e tutti i paramenti sacri, ed uscì dalla sagrestia per officiare la messa, in assenza del prete titolare. "Da parte mia ottenni il finale di “Luci d'inverno” e la codificazione di una regola che ho sempre seguito e dovrei seguire in ogni istante. Nonostante tutto, devi mantenere la tua messa”. (da Immagini, libro-diario di I.Bergman)
  2. L'ennesimo paradosso bergmaniano, in questo film, è costituito dal fatto che chi cerca Dio in “Lucid'inverno” è chi avrebbe dovuto trovarlo prima degli altri. A decretare il fallimento della fede e della religione è un sacerdote, Tomas. Esattamente come a decretare il fallimento della psicanalisi fu un grande psichiatra in “L'immagine allo specchio” e lo scrittore David dichiarò il fallimento della poesia in “Come in uno specchio".

Secondo alcuni, Bergman racconta in “Luci d'inverno” la sterilità dell'ateismo.
Se Dostojevsky affermava che ...”dove non c'è Dio tutto diventa lecito”; Bergman ripete che se non si riesce a trovare o a ritrovare Dio l'uomo annega nel.. “vuoto esistenziale”.
Ma nemmeno si può essere certi, come sostenuto da altri, che la fine del film segni indiscutibilmente la ...“fine della disperazione dell'uomo”.


SMR



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